Una piccola favola

Simone D'Aurelio

(6 min. lettura)

Ho pensato di scrivere una piccola favola sul mondo che verrà. Una di quelle da recitare ai bambini piena di significati nascosti come Pinocchio o Cappuccetto Rosso, uno di quei racconti che nasconde sempre mille piani e diverse prospettive sulla realtà.

In questo mese parlando con mio fratello ho immaginato la favola del bambin disperso e proverò brevemente a raccontarla ai miei lettori:

C’era una volta, nella vivace Città delle Idee, un piccolo e speciale bambino/a. Era nato/a da due genitori amorevoli, chiamati semplicemente Genitore 1 e Genitore 2, che credevano che la vita dovesse essere una danza di infinite possibilità. Così, il bambino/a non aveva un solo nome, ma tanti, e i suoi vestiti cambiavano colore e forma come le nuvole nel cielo, un giorno da bambino, un giorno da bambina, a seconda degli umori.

I suoi genitori erano sempre in viaggio, esplorando il mondo con il loro lavoro, e questo portava al bambino/a una vita agiata, piena di giocattoli nuovi e senza mai fermarsi. Per lui/lei, ogni luogo era casa, perché non c’erano confini o storie antiche a legarlo/a alla terra. A scuola, le maestre e il preside lo/la applaudivano, chiamandolo/a “il bambino/a dell’efficienza”, perché era la prova vivente che l’innovazione portava a risultati strabilianti. I suoi genitori facevano persino parte di un comitato che creava “robot-genitori”, automi perfetti programmati per crescere orfani, una vera meraviglia della tecnica!

Nella Città delle Idee, tutto era astratto, fluido, in continua trasformazione. Si diceva che l’uomo e la donna fossero solo vecchie idee, e che la realtà stessa fosse un concetto superato. Volgeva il tempo dell'”Era dell’Astratto”, un periodo luccicante di infinite possibilità.

Il meraviglioso bambino/a cresceva in questo mondo in continua evoluzione. Un giorno, i suoi genitori lo/la portarono allo zoo. Vide giraffe maestose, tigri eleganti, leoni ruggenti e uccelli dai colori incredibili. Ma c’era qualcosa che lo/la rendeva perplesso/a: nessuno di quegli animali cambiava la sua natura, non si trasformava in qualcosa di diverso. Erano semplicemente ciò che erano. Sulla via del ritorno, vide persino Genitore 1 dare uno schiaffo a Genitore 2, che subito si dichiarò un “meraviglioso tavolo floreale” per non dover reagire, ristabilendo una “pace ideologica”. Il bambino/a era confuso/a.

Ma tornando a casa, qualcosa di straordinario catturò la sua attenzione: un cipresso alto e imponente che si ergeva dietro una vecchia cattedrale abbandonata. Con il passare dei giorni, quel cipresso divenne il suo migliore amico. Non lo amava come gli adulti, con sogni di abbracci e famiglie, ma era attratto/a dalla sua regolarità e semplice armonia. Il cipresso non mentiva: i suoi colori cambiavano con le stagioni, dal cupo inverno al luminoso splendore della primavera. A differenza dei suoi abiti che cambiavano umore, il cipresso era coerente con la realtà, dialogava con la natura, e la sua stessa esistenza sembrava spiegare le leggi della vita e della scienza. Era come una bussola silenziosa nei suoi viaggi e nelle sue domande.

Un giorno, tornando da scuola, il bambino/a decise di assistere a un’attività formativa intitolata “La realtà non esiste”, proposta dagli amici dei suoi genitori. Doveva essere una lezione importante, ma si rivelò uno spettacolo comico dove gli attori, troppo immersi nelle loro parti, facevano una gran confusione, tra le risate fragorose dei bambini.

Uscendo, disorientato/a dal caos e dalle risate, il bambino/a si perse. Il cielo si era fatto nuvoloso e iniziava a nevicare forte. All’improvviso, un suo compagno di scuola, Silv-ia-io, che usava nomi e pronomi fluidi, gli/le si avvicinò e disse: “Vedi, piccolo bambino/a, la realtà non esiste! Basta una nevicata e scompare tutto! Vieni con me alla fiera dell’ideologia, lì possiamo metterci qualsiasi costume vogliamo! Ti farò strada io, è qui vicino!”

“No, ti ringrazio,” rispose il nostro protagonista. “Ma proprio questa splendida veste bianca che cade dal cielo modella ogni cosa e la rende nuova. Ammiriamola insieme e troviamo una via per tornare a casa.”

“Ma cosa dici?” ribatté Silv-ia-io. “Non vedi che ciò che costruiamo noi serve per rifugiarsi da queste sventure? Vieni, con me, fino a notte fonda saremo liberi di fare ciò che vogliamo ed essere tutto ciò che immaginiamo! Possiamo giocare felici, perché potremo dare un senso a ogni cosa!”

La neve si fece sempre più fitta, e i due faticavano a orientarsi. Silv-ia-io continuava a urlare che la felicità era vicina, ma camminavano da ore senza meta. A un certo punto, il nostro piccolo protagonista capì che per ritrovarsi, doveva guardare il mondo da un punto di vista diverso, non solo in orizzontale. Trovò una piccola torre abbandonata, piena di scudi e antichi emblemi, e da una grande fessura vide il suo amato cipresso!

Osservando attentamente la pianta, capì che il cipresso, quel punto fermo che dialogava con la cattedrale, gli/le forniva tutte le coordinate per tornare a casa.

Il piccolo protagonista, con il cuore che batteva forte per la scoperta, si aggrappò a quella visione chiara: il cipresso, saldo e immutabile, era la sua vera bussola. Nonostante la neve turbinante e le parole confuse di Silv-ia-io, la sua mente era lucida. Il cipresso era lì, a dialogare silenziosamente con l’antica cattedrale abbandonata, un punto fermo in un mondo che sembrava dissolversi in un turbine di idee e apparenze.

Mentre Silv-ia-io continuava a gridare, sempre più smarrito nella nevicata e nelle sue convinzioni che bastasse immaginare per creare la realtà, il bambino/a fece una scelta. Non seguì le grida, ma si affidò alla verità semplice e onesta che il cipresso gli/le mostrava. Si calò dalla torre e, passo dopo passo, con la neve che gli/le arrivava alle ginocchia, iniziò a muoversi nella direzione indicata dal suo amico verde.

Il cammino era difficile, ma la certezza dentro di sé era più forte del freddo. Dopo un po’, intravedendo una luce fioca in lontananza, si avvicinò e trovò una vecchia dimora quasi nascosta dalla neve. Bussò timidamente. Ad aprire fu un signore anziano, con abiti logori ma un portamento fiero. Al collo portava un pendente: era proprio uno degli emblemi nobiliari che il bambino/a aveva visto nella torre!

“Mio caro fanciullo,” disse l’uomo con voce stanca ma dignitosa, “cosa ti porta in questa tempesta? Sono il Conte Ruggero, un tempo signore di queste terre, ora solo il custode di memorie.”

Il bambino/a, infreddolito/a ma con gli occhi pieni di una nuova comprensione, gli raccontò della nevicata, della torre e, soprattutto, della sua scoperta sul cipresso come guida.

Il Conte Ruggero sorrise tristemente. “Ah, il cipresso! Quella pianta è stata testimone di secoli. Ha visto regni nascere e cadere, stagioni passare e tornare. Essa è la realtà stessa, figlio/a mio/a. Non mente mai, non cambia la sua essenza per un umore o un’idea passeggera. È sempre lì, nel suo posto, con la sua forma, radicato nella terra e teso verso il cielo.”

“Ma allora,” chiese il bambino/a, “perché tutti dicono che la realtà non esiste? Perché cercano di scappare da essa?”

Il Conte sospirò. “Perché la bellezza della realtà non è sempre quella che vogliamo noi, ma quella che è. È nelle stagioni che cambiano, nel freddo che si alterna al caldo, nel sonno che segue la veglia. È nell’essere ciò che si è, con le proprie radici e il proprio ciclo. Molti preferiscono creare le proprie ‘realtà’ effimere, fatte di sogni e capricci, ma queste si dissolvono come la neve al sole. Solo ciò che è vero e radicato può resistere alla tempesta e mostrarti la via.”

Il bambino/a capì. Aveva viaggiato in lungo e in largo, vestito/a in mille modi, immerso/a in un mondo dove tutto era fluido e astratto. Ma la vera libertà, la vera direzione, non era nell’inventare ciò che si voleva essere, bensì nel riconoscere ciò che si è e ciò che è. Il cipresso, con la sua immutabile bellezza e la sua costante presenza, era la dimostrazione che la realtà non è un’illusione da cui fuggire, ma una bussola affidabile che ci riconduce a casa.

Con il cuore leggero e la mente chiara, il bambino/a salutò il Conte Ruggero che gli aveva dato il suo mantello per sostenere la dura prova. La nevicata si era calmata, e la luna illuminava il percorso. Seguendo la sagoma familiare del cipresso, che si stagliava netto contro il cielo stellato, il bambino/a trovò la strada per tornare a casa, portando con sé la lezione più importante di tutte: che la vera bellezza e la vera felicità risiedono nella verità e nella coerenza della realtà, e che l’autenticità è la più preziosa delle guide. Da quel giorno in poi, il cipresso non fu solo un amico, ma il simbolo vivente della saggezza del mondo.

Foto di Erik Mclean: https://www.pexels.com/it-it/foto/raffreddore-freddo-neve-paesaggio-6367230/

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