Il rapporto con la morte nel cristianesimo

Simone D'Aurelio

(5 min. lettura)

Ciò che è da notare è che per noi cristiani il rapporto con la morte è molto ben definito, Cristo l’affronta quattro volte nei vangeli, precisamente per tre volte resuscita tre persone in tre età diverse, prima una bambina, poi un ragazzo figlio di una vedova, e infine l’adulto Lazzaro, in ultima battuta sconfigge egli stesso la morte. I vangeli sono collegati, e ciò che ci fanno capire gli autori, è che Cristo è in grado di affrontare e di distruggere la caducità, e che non vi è un’età sotto cui la Sua mano non può operare. Ma ci dice anche di più, che non c’è distinzione per il suo operare, così come per la resurrezione. Ciò che è ancora più rilevante è la discussione del Rabbì con coloro che vedono la morte come la fine di ogni cosa, i sadducei non comprendono nè la potenza di Dio, e neanche il passato, il presente e il futuro, perchè in fondo sono tempi collegati: “quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe” Dio non è dei morti ma dei viventi, perchè tutti vivono per Lui” (Lc 20-34,38). I ricchi sadducei vivono la parte materiale, vedono il passato come ormai distrutto, il presente come il tutto (ma anche come il nulla perchè sarà devastato), e il futuro come la prossima fine di ogni cosa. Le logiche del mondo per loro dominano su tutto, proprio per questo non riescono a intravedere altro, la loro domanda parte dall’assolutizzare la vita terrena, quindi è normale per loro pensare che la vita celeste se deve esistere deve essere identica a quella terrena e anzi è problematica per via dei matrimoni, e di questioni lasciate in sospeso, ignorando la giustizia di Dio e la grandezza della Gerusalemme Celeste. Per i sadducei tutto finisce qui, per il cristiano tutto parte da qui. Per S. Paolo la fede senza lo sguardo che và oltre la morte è segno di una fede vana, ed è giusto, senza resurrezione tutto equivale alla vanità.

Tutto ciò ci riporta a Dio, alla Sua infinita grandezza, che nel popolo ebreo si rivela, e che non lascia chi gli è fedele, Jhavè infatti si qualifica come il Dio dei padri, diverse volte nell’antico testamento, è Colui che non dimentica le persone, i cuori, e gli animi, Colui presso il quale la morte non corrisponde all’annientamento della persona. I vangeli sono collegati tra loro e a loro volta sono collegati all’antico testamento, Giobbe infatti nel dolore si rivolge a Dio, e prepara tutto per rendere conto a Lui. Si parte in questo caso dal presupposto implicito che ci sarà un tempo e un’adeguata ricompensa dopo la morte per chi si comporta in modo retto. Nella Bibbia troviamo anche Eleàzaro (Maccabei) che preferisce affrontare ogni dolore piuttosto che peccare, fino a giungere alla morte, che però viene affrontata con dignità e coraggio. Lo stesso potremmo dire dei 7 fratelli che arrivati di fronte al tiranno decidono di farsi uccidere, piuttosto che macchiarsi d’ingiustizia (sempre nel libro dei Maccabei). L’agire in modo onesto per chi crede in Dio, diventa fondamentale proprio perchè nella morte vediamo solo il passaggio a un giudizio, e poi ad una perfetta sentenza che apre le porte all’eternità. Ma arriviamo a Qoèlet, il saggio uomo individua tutto come vanità, mostra come le generazioni vanno, come la prosperità la ricchezza, il gusto e il piacere,ed “il bello della vita”sono vanità, nella prospettiva piatta, orizzontale, tutto diventa una prassi senza senso, ogni azione rappresenta uno sforzo inutile sotto il sole, ogni cosa perisce, ma il libro del saggio non finisce in questo modo, bensì apre a Dio, al Suo giudizio, al guardare a Lui, proprio perchè la peritura, la ciclicità, e la fine di tutto si spezza nell’incontro con Dio. Incontro con una divinità precisa però, che salva l’essere e il divenire, il cristianesimo infatti a differenza di molte religioni orientali non assegna a ciò che perisce un ruolo indifferente: molte dottrine e filosofie di stampo orientale vedono in ciò che non è necessario, in ciò che perisce l’inutilità intrinseca della loro essenza, delle loro azioni, e gli si assegna in questo modo la prospettiva illusoria, in cui il temporaneo di fronte all’eterno viene sminuito in un modo totale. Nel cristianesimo il divenire e il contingente ha la sua importanza perchè scolpisce in modo libero il proprio destino dopo la morte. Si salva il presente, il passato e il futuro.

Ma oltre a tutto ciò in fondo il cristianesimo restituisce la speranza e la certezza ultima: “L’uomo la cui speranza s’arresta dinanzi alla morte ha solo delle speranze parziali, il che vuol dire che in definitiva non ha speranza. Il fedele non è tormentato domanda “Che cosa verrà dopo?”. In questa speranza l’uomo arriva alla sua vera identità personale (Selbst): non come vuole Heidegger, fissando la morte, ma fissando il Signore venturo […] Alla chiamata di Dio l’uomo risponde amministrando e plasmando il mondo che Dio gli ha affidato. Egli vede nel mondo non l’ultima, ma una penultima realtà. Tuttavia lo prende sul serio, perchè gli è stato affidato da Dio. In esso egli vede la creazione a cui Dio ha rivolto il suo amore e le sue cure. Pur sapendo che il suo aspetto è transitorio. (M. Schmaus, Le ultime realtà, Edizioni Paoline,1960,p. 116-117)

Il cristiano non è chiamato a divinizzare il mondo, e neanche a colonizzarlo, il credente non si deve far vincere dalla sete di dominio e di potenza, nell’ottica cristiana il mondo va fatto fruttificare in senso positivo, perchè dopo la morte ci sarà una nuova vita. Quanto è grande questa vita, eterna, e quanto è immensa la ricompensa e la punizione è presentabile solo in modo parziale. La maestosità di ciò che viene dopo è incredibile. Ogni bellezza del mondo, ogni maestosità dell’universo è solo una minuscola e imperfetta rappresentazione di ciò che c’è dopo il passaggio da questa vita all’altra. La visione del volto di Dio accessibile solo con il lume della gloria,insieme alla comunione perfetta con tutti gli uomini di ogni tempo, ed allo splendore della città Celeste, porteranno l’uomo in un percorso di beatitudine infinita. Proprio sul ciò che c’è dopo la morte, possiamo aprire una importante certezza guardando ad una discussione avvenuta tra S. Tommaso e un suo confratello morto, che lo aveva preceduto sulla cattedra di Parigi: “Allora Tommaso, sempre preoccupato da questioni teologiche, volle approfittare dell’occasione per rischiare il mistero della beatifica visione; ma gli fu risposto con il versetto: “Sicud audivimus, sic vidimus in civitate Dei nostri”, “Come avevamo udito, così abbiamo visto […] Nella città del nostro Dio” (Sal 48,9)” ( Francois Xavier Schouppe, Cos’è il purgatorio, Fede & Cultura, 2021, pag 206)

Per il cristiano la morte non rappresenta il tutto, bensì il tutto è il Sommo Bene, Colui che si è presentato come il Dio per cui tutti vivono, e la conseguenza di ciò è dovuta alla Sua stessa natura,il suo voler donare la vita eterna, la sua carità, il dono di sè, incarnato in Cristo, crea un rapporto di reciprocità infinito ove l’uomo si completa nel donarsi a suo volta a Dio, in una linea senza tempo di amore eterno. Noi siamo perchè Tu Sei, e la morte, rappresenta solo una fase dove si sciolgono e si intrecciano i nostri legami, e dove nel finito seminiamo l’infinito.

Foto di Karolina Grabowska: https://www.pexels.com/it-it/foto/neve-inverno-croce-cimitero-6769914/

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